La docente è in pensione dal I luglio 2015.
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Nata a Pescia (PT) nel 1953, mi sono laureata a Firenze, presso la Facoltà di Lettere e Filosofia, nell'aprile del 1977, con una tesi sulla prima edizione delle Vite del Vasari, diretta da Lanfranco Caretti. Nel dicembre dello stesso anno sono risultata vincitrice di una borsa di studio intitolata al nome di Aldo Palazzeschi, di cui ho usufruito, presso la cattedra di Letteratura Italiana B, tenuta da Lanfranco Caretti, fino al momento in cui, nel settembre 1981, ho preso servizio in qualità di ricercatrice confermata, avendo superato la prima tornata dei relativi giudizi di idoneità. A partire dall'anno accademico 1983-84 ho collaborato didatticamente con l'insegnamento di Letteratura Teatrale Italiana, di cui era titolare Riccardo Bruscagli. Dallanno accademico 1991-92 mi è stato attribuito annualmente, sempre presso la Facoltà di Lettere e Filosofia di Firenze, laffidamento di Letteratura Teatrale Italiana, specificamente rivolto agli studenti dellindirizzo di Musica e Spettacolo del Corso di Laurea in Lettere. In data 1-11-2001, avendo conseguito lidoneità relativa, ho preso servizio presso la Facoltà di Lettere e Filosofia come Professore di seconda fascia soggetto a conferma (la conferma nazionale è pervenuta concluso il triennio di straordinariato). Disciplina: Letteratura Teatrale Italiana; raggruppamento disciplinare: L-FIL-LET/10.
All'inizio le mie ricerche si sono orientate prevalentemente verso la letteratura cinquecentesca, sondata attraverso le esperienze della storiografia artistica e civile, della novellistica e della cultura accademica teatrale e d'intrattenimento. Successivamente mi sono dedicata a questioni storiche e filologiche connesse alle tecniche di composizione e trasmissione dei testi teatrali, analizzate nella loro diacronia quattro-novecentesca e applicate direttamente a testi cinquecenteschi e settecenteschi. Attualmente mi dedico a specifici problemi di drammaturgia cinque-seicentesca.
Il volume Vasari scrittore. La prima edizione del libro delle Vite (1979), affronta il problema della meno nota stampa torrentiniana del 1550, intesa come testo compiuto, regolato da leggi peculiari, diverse da quelle delle Vite giuntine del 1568, e da collocare in una precisa fase della civiltà fiorentina. Lo studio mira a definire la trama dell'opera mediante l'articolazione dei molteplici personaggi, distinti da specifiche tipologie, connesse a loro volta alla qualità dei tempi, all'epoca civile, oltre che artistica, entro la quale vengono situate le vite. Un libro, dunque, letto come una storia continua priva di cesure: non una serie di biografie ma un sistema biografico, in cui il processo perfettivo da Cimabue a Michelangelo assume le caratteristiche di un vero e proprio disegno toscanocentrico, volto a far gravitare tre secoli di conquiste artistiche intorno al nuovo principato di Cosimo I, erede dello splendore laurenziano ed in grado di restaurare la quiete civile e la prosperità culturale dopo i travagli dei decenni iniziali del Cinquecento, culminati nel sacco di Roma del 1527.
Vasariano anche il secondo dei miei titoli: la Rassegna vasariana (1980) discute edizioni delle Vite e studi di vario orientamento (letterario, artistico, storico e sociologico) apparsi fra il 1978 e il 1979 ed è concepita come allargamento e prolungamento delle tesi contenute nel Vasari scrittore - che già tratta il problema delle Vite come genere 'mescidato' - e giunge a formulare alcune ipotesi sulle concezioni storiografiche che probabilmente influenzarono l'autore nella stesura della seconda redazione giuntina.
Ancora sul passaggio dalla Torrentiniana alla Giuntina insiste l'intervento Tipologia novellistica degli artisti vasariani (1981), attento alla diversa utilizzazione che il genere 'novella su artisti' ebbe nelle edizioni del 1550 e del 1568, in relazione anche alla diretta influenza esercitata dalle prime Vite su quel genere stesso. Da un lato, infatti, alla reinterpretazione vasariana dei modelli decameroniani e delle spicciolate e dell'aneddotica quattrocentesche fa riscontro la successiva utilizzazione da parte di un autore come il Bandello delle Vite come fonte e canone novellistici; dall'altro, il Vasari degli anni Sessanta diventa fonte e tradizione di se stesso, orientando però in modo diverso le precedenti tipologie dei personaggi e creandone di nuove, al fine di conferire un maggiore decoro ai protagonisti della ufficialità artistica coeva, operando così un progressivo e definitivo distacco dalle soluzioni novellistiche in auge.
Parte degli argomenti svolti nel libro e negli articoli vasariani in merito all'evolversi del clima culturale fiorentino sono legati, soprattutto dal punto di vista metodologico, all'elaborazione del saggio Le date-guida delle Storie fiorentine e delle Cose fiorentine di Francesco Guicciardini (1981): la crisi apertasi con l'invasione francese del 1494 è traguardata dal punto di vista delle due prime opere storiche guicciardiniane fino alla soglia della Storia d'Italia. In particolare il taglio dell'analisi pone in luce gli snodi e i rapporti temporali che emergono dal tessuto argomentativo e ritmano l'evoluzione civile della città dal tardo Trecento all'epoca contemporanea.
Successivamente i miei studi si sono indirizzati verso l'ambiente accademico senese della seconda metà del Cinquecento, nel periodo compreso fra la caduta della città assediata dall'esercito imperial-fiorentino (1555) e la riapertura, nel 1603, delle accademie locali, chiuse nel 1568 per decreto mediceo. In particolare le ricerche sono cresciute intorno all'edizione critica, con introduzione e commento, dei Trattenimenti di Scipione Bargagli, composti prima del 1569, stampati nel 1587, ripubblicati, in una diversa redazione, nel 1591, e mai più riediti integralmente. L'opera, che costituisce una delle testimonianze principali dell'attività letteraria senese dell'epoca, tramanda la consuetudine cittadina della 'veglia', al cui interno, attraverso i giuochi eseguiti e le novelle narrate per penitenza, viene codificata la concezione sociale e culturale delle accademie nobiliari senesi: il tutto ambientato giusto durante il carnevale dell'assedio del 1555, a sottolineare la volontà di preservare le tradizioni patrie in anni, come quelli Sessanta, in cui ormai Siena era inserita stabilmente nell'orbita medicea.
Procedendo su questi binari, la ricerca si è soffermata in un primo momento sul Dialogo de' giuochi che nelle vegghie sanesi si usano di fare, composto, sempre negli anni Sessanta, dal fratello di Scipione, Girolamo, e strettamente collegato ai Trattenimenti, i quali sono appunto, secondo quanto afferma il loro autore, la pratica della teorica del Dialogo. Le mie ricerche si sono concentrate sul reperimento di nuovi documenti in merito alle accademie cui appartenevano i Bargagli, e sull'indagine dell'evoluzione dell'attività specifica di Scipione, conducendo alla stesura di Vent'anni dopo: un progetto di riedizione del Dialogo de' giuochi (1985). Il saggio, che offre una prima sistemazione degli inediti bargagliani e accademici in genere rintracciati nel corso delle indagini, prende l'avvio da un progetto di edizione, ideato da Scipione negli anni Novanta e mai andato in porto, del Dialogo de' giuochi di Girolamo, corredato dalle descrizioni delle feste della Corte dei Ferraiuoli (1569-1570), che avrebbero dovuto costituire un'ulteriore determinazione e divulgazione del filone ludico e teatrale senese.
In parallelo è nata l'edizione critica di un testo narrativo di Scipione, La novella di Carlo Montanini e Anselmo Salimbeni: un inedito di Scipione Bargagli (1983) (poi in volumetto col titolo Novella di Angelica Montanini [1991]), tarda ripresa della vena novellistica giovanile legata alle nuove istanze linguistiche 'sanesi', coltivate in modo quasi ossessivo a partire dagli anni Novanta e destinate a sfociare nel dialogo Il Turamino (1602). Questi interessi linguistici hanno successivamente trovato compimento nel saggio Scipione Bargagli fra comune toscana dettatura e maniera sanese pura e gentile (1991), in cui ho ricostruito il complesso itinerario del Bargagli in direzione della difesa e della pratica della lengua sanese, intesa anche come rivendicazione di autonomia culturale di Siena rispetto a Firenze.
Momenti centrali delle mie ricerche su Siena sono per altro l'edizione dei Trattenimenti (1989) e il volume Giuoco e teatro nelle veglie di Siena (1993). La prima, muovendosi sui tre piani della tradizione testuale, del commento e dell'Introduzione critica, mira a ricostruire il processo costitutivo dell'opera. Sotto il primo aspetto sono stati indagati i frammenti autografi superstiti e le due redazioni a stampa del libro, dirimendo, in base ai moderni criteri bibliologici, le vecchie questioni di una princeps fantasma del 1581 e di una ristampa del 1592 dell'edizione del 1591. Lampio commento al testo punta soprattutto, al di là delle necessarie esplicazioni linguistiche, alla specificazione sia dei filoni culturali evocati dai giuochi, i quali pertengono ciascuno a generi diversi, sia delle teorie cinquecentesche sull'amore, di cui i Trattenimenti costituiscono infatti un piccolo trattato in forma di giuoco, articolato non solo sul registro platonico ma anche su quello carnascialesco-burlesco. Tessuto connettivo del commento, il costante rimando alla cultura quotidianamente praticata nelle accademie senesi consente di affrontare, in sede di Introduzione, la ricostruzione del giro d'anni in cui l'opera venne ideata e composta e che coincide con il noto risveglio letterario senese posteriore alla fine della guerra. In tal modo si precisano i vari orientamenti accademici del panorama cittadino (di solito appiattiti sul modello intronatico) e soprattutto si delinea la complessiva strategia degli intellettuali, volta a ricucire la frattura determinata dalla sconfitta e dall'attribuzione di Siena ai Medici e a mediare l'inevitabile confronto con la cultura egemone. A questo scopo coopera anche la letteratura d'intrattenimento e giusto il libro di Scipione, insieme al Dialogo de' giuochi, ma in modo peculiare, si ritaglia uno spazio vitale all'interno del dibattito, e rispecchia e al tempo stesso influenza le contemporanee esperienze oratorie e in genere celebrative che mirano a istituire un legame con la nuova capitale, riversando nell'operazione tutto il bagaglio del concreto esercizio accademico.
Il secondo lavoro (Giuoco e teatro nelle veglie di Siena) analizza invece specificamente la produzione teatrale veglistica delle accademie senesi ed ha avuto un'anticipazione nell'articolo L'invenzione del genere 'veglie di Siena' (1991). Il libro comprende una prima vasta parte saggistica sul modo in cui si venne costruendo nella Siena della seconda metà del Cinquecento la letteratura delle veglie, e affronta il problema della nozione stessa di 'veglia', e specificamente di 'veglia senese', quale si impose in quegli anni. Grava da un lato il mito ossessivo dei giuochi, sancito dal fortunatissimo 'dittico' dei fratelli Bargagli (e furono gli unici testi editi all'epoca), e imbarazzano di conseguenza le Notti del Fortini. Queste, infatti, hanno uno solo giuoco ed esibiscono invece un numero cospicuo di commedie, inserite in una cornice che si vorrebbe decameroniana, come quella delle Giornate, e che al contrario si sottrae, densa di banchetti, giardini, apparati teatrali e con solo una coda di novelle, ad un simile intento normalizzatore in chiave narrativa. Per ultimo appaiono difficilmente comprensibili le molte relazioni di 'intertenimenti' rimaste inedite e anche criticamente ignote, che non parlano né di giuochi, né di commedie e si mostrano sensibili ad istanze talvolta più trattatistiche o dialogiche che ludiche, teatrali, o anche semplicemente descrittive. La seconda parte del lavoro si incarica di offrire testimonianze integrali di queste opere, pubblicando tre dei molti testi inediti che ci sono rimasti. In particolare si tratta del corpus veglistico, risalente al 1569-1570, di una delle accademie nobiliari, la ricordata Corte dei Ferraiuoli: 1) Relatione dell'Origine della Corte de' Ferraiuoli e spettacol rappresentato l'anno 1568 nel Palazzo Cerretani in Siena; 2) Riverci di Medaglie della Ventura Befana de' Cortigiani Ferraiuoli; 3) Trattenimento d'Armi e di Lettere. Un apparato iconografico relativo alle veglie completa il lavoro.
La forte connotazione teatrale dell'intrattenimento senese e il suo riverbero sulla teoria novellistica locale sono invece l'oggetto di L'Accademia e la novella nel Cinquecento: Siena e Firenze (1988), che analizza i due principali interventi teorici del Cinquecento sulla novella (quello di Girolamo Bargagli e quello di Francesco Bonciani) nel loro disporsi secondo lo schema del dibattito accademico a distanza. L'influenza della commedia intronatica sulle teorie bargagliane si traduce in una spinta verso l'accentuazione del dettato teatrale e in specie fiorentino nelle pagine del Bonciani, indotto a caratterizzare in modo antagonistico rispetto a Siena le proprie soluzioni. Sulle intersezioni fra teatro e novellistica verte anche Il 'sacco' giraldiano e la tradizione dell''orrido cominciamento' nella novella cinquecentesca (1989), che affronta il nodo della teorizzazione di un nuovo tipo di novella morale e civile, fortemente partecipe del genere tragico propugnato dal Giraldi e sempre più discosta da quelle istanze che avevano inscritto la pratica narrativa nel cerchio della civil conversazione, finendo
per abolire in primo luogo proprio l' 'orrido cominciamento' ammonitorio. Problemi analoghi, sempre relativi ai rapporti fra teatro e novella, ma specificamente focalizzati sulla struttura narrativa interna dei racconti, sono affrontati anche in Fra 'opere scellerate' e 'dolorosi fini': il tragico nella novella toscana del Cinquecento (1991).
Dal punto di vista prettamente teatrale, oltre a continuare ad occuparmi di settori rinascimentali già sperimentati come quello senese (Drammaturgia tragica degli artigiani senesi di primo Cinquecento [1996]) o quello relativo al rapporto fra generi diversi (I verdi chiostri tassiani dalla pastorale alla tragedia [1995]), mi sono successivamente dedicata anche ad argomenti settecenteschi: infatti l'articolo Goldoni fra memoria e filologia (1990) avvia un'indagine sullintricata questione editoriale connessa alle prime due edizioni delle commedie curate personalmente dall'autore (la Bettinelli e la Paperini), edizioni in cui la rielaborazione dei testi, sovente non dichiarata, o 'faziosamente' dichiarata, sottende una precisa volontà di storicizzare la riforma teatrale in atto. Ciò avviene ogni volta in modo diverso, poiché il commediografo agisce in sintonia con le particolari esigenze che caratterizzano in quel momento la sua carriera: da qui la necessità di sciogliere i nodi filologici del percorso goldoniano seguendone cronologicamente le tappe.
Siamo allinterno del campo più generale della 'filologia teatrale', cioè della particolare metodologia necessaria per affrontare l'esegesi critica e l'edizione delle opere teatrali nella loro duplice valenza di testi allestiti per la rappresentazione scenica e di testi elaborati per una vita letteraria. L'obiettivo è stato quello di analizzare le costanti e le varianti del fenomeno a partire dalle origini del teatro profano volgare fino al Novecento, così da ricostruire, attraverso una serie di esempi chiave, una storia del rapporto scena-libro, sia discutendo le indagini condotte su singoli argomenti e opere da vari studiosi, sia adunando materiali inediti. In questo particolare ambito si colloca lintervento Prolegomeni a un'edizione goldoniana: La gastalda e La castalda (1992), in vista delledizione critica della commedia doppia in questione, poi pubblicata nel 1994 allinterno dellEdizione Nazionale delle Opere di Carlo Goldoni, diretta allepoca da Sergio Romagnoli.
Con questa commedia Goldoni offre una versione della tradizionale carriera della serva padrona spostando l'azione in una villa sulla Brenta e trasformando Corallina in castalda di Pantalone. Ma le castalde in effetti sono due, a causa di vicissitudini redazionali quanto mai incisive. Il primitivo testo allestito per la scena (La gastalda, 1751) venne pubblicato contro la volontà di Goldoni all'interno dell'edizione Bettinelli
(1753), dopo che il commediografo aveva abbandonato questa impresa da lui stesso inaugurata per allestire la nuova edizione Paperini. Al testo spurio, giudicato di per sé indegno del torchio, Goldoni volle pertanto opporre, all'interno della Paperini, una diversa redazione d'autore, destinata programmaticamente alla lettura, e non allo spettacolo (La castalda, 1755), dando vita così ad un vero e proprio rifacimento. La gastalda era stata la prima commedia calibrata sulla personalità di Maddalena Raffi Marliani, la celebre servetta della compagnia Medebach al Sant'Angelo per la quale Goldoni compose in seguito anche La serva amorosa e La locandiera, La castalda nasce mentre il commediografo lavora al teatro San Luca e ha già impresso alla riforma una svolta profonda rispetto alla prima fase della sua carriera. La gastalda e La castalda si fronteggiano così in una gara a distanza fra drammaturgia sull'attrice e per l'attrice e drammaturgia ormai senza più attrice, fra testo scenico, cioè, e testo letterario.
Dallesperienza dellEdizione nazionale è nato successivamente il lungo saggio Testo per la scena - testo per la stampa: problemi di edizione (1996) che affronta metodologicamente il concetto di filologia teatrale'. «È importante chiarire che il rapporto scena-libro qui indagato è pertinente alla storia del testo e non alla storia della fortuna del testo stesso: come noto, non esiste pressoché alcuna rappresentazione che esibisca il preliminare dettato d'autore indenne da adattamenti scenici, indenne cioè da una drammaturgia del testo rappresentato (una drammaturgia registica e attoriale). Diverso è invece il caso di un testo sottoposto a manipolazioni e interferenze tra scena e letteratura prima del suo fissarsi in tradizione a stampa, cosicché risulti difficile distinguere gli elementi pertinenti ai due diversi piani. Uno degli esempi privilegiati è quello dell'Orfeo del Poliziano, da tutti letto, fino al 1986, anno dell'edizione critica curata da Antonia Tissoni Benvenuti, secondo la vulgata 'presunta d'autore' risalente alla princeps del 1494, in realtà una forma teatrale, che mescidava lezione autenticamente polizianesca e adattamento rappresentativo, approdata ai torchi al posto dell'originale sull'onda di un irresistibile successo scenico. Ancora, le stampe del 1509 della Cassaria e dei Suppositi in prosa (non solo uniche commedie ariostesche edite in diretta contiguità con la data della messa in scena, ma addirittura uniche commedie in assoluto edite mentre l'Ariosto era in vita), si rivelano, in base a lettere dell'autore del 1532, frutto del furto degli attori (rubatemi da li recitatori), cioè copioni non rivisti ed approvati dall'Ariosto, ricomposti giusto dagli attori attraverso le parti scannate e successivamente ceduti agli importuni et avidi stampator. Infine si pensi al caso di autori come Goldoni e Gozzi che pilotano personalmente le proprie opere da un primitivo assetto scenico ad una successiva forma letteraria: un percorso ricostruibile dagli studiosi solo scavando al di sotto e talvolta 'contro' le dichiarazioni ufficiali degli autori, impegnati a dissimulare fin dove possibile le tracce della vita 'da palcoscenico' delle proprie creazioni, sentita in contrasto con un ideale letterario scevro da compromessi legati alle esigenze 'di compagnia', o comunque diversa da quella che si vuole stabilmente accreditare presso il pubblico di lettori. In tutti questi casi il carattere anodino della veste editoriale, la sua intrinseca 'opacità' filologica, dovuta al cancellamento di ogni sutura ed incertezza, ha occultato il processo costitutivo di questi testi, facendo sì che le interferenze fra scena e letteratura, fra volontà d'autore e calibratura rappresentativa d'occasione, rimanessero a lungo ignote fino all'impatto con più agguerrite indagini sul piano dei testimoni e dei documenti. Da questo punto di vista anche un classico del Novecento come Pirandello continua a riservare sorprese: solo l'edizione in fieri di Maschere nude curata da Alessandro d'Amico, infatti, rivela e dispone stratigraficamente in modo compiuto i molteplici passaggi dai copioni alle varie redazioni a stampa, nonché le interrelazioni fra lavoro di scena e 'volontà ultima' d'autore.
Conseguenti alle esperienze descritte e ad esse strettamente legati sono i tre saggi su Goldoni, Chiari e Gozzi (Goldoni, Chiari, Gozzi e lo scrittoio teatrale, Parrebbe un romanzo: gare editoriali fra Goldoni e Chiari, Goldoni, Chiari, Gozzi fra scritto e non scritto: 1997-99) che successivamente sono confluiti nel più ampio volume Parrebbe un romanzo. Polemiche editoriali e linguaggi teatrali ai tempi di Goldoni, Chiari, Gozzi (2000). Infatti sono presto entrati in circolo nei miei studi sul teatro veneziano appunto Chiari e Gozzi, gli interlocutori di Goldoni, chiamati in causa, quasi fisiologicamente, dallimpossibilità critica di fare a meno di loro, dato che Goldoni non poté evitarli e dato che nessun scrittore, decidendo di cimentarsi sui palcoscenici veneziani, avrebbe potuto a sua volta evitare Goldoni, che fu, come ebbe a dire retrospettivamente il conte, un gran scoglio. Non ho inteso per altro ripercorrere liter delle ben note polemiche con la loro sequenza di plagi e parodie, proposte e risposte drammaturgiche, quanto auscultare i contraccolpi della guerra dei teatri sia sui modi in cui avvenne la fissazione a stampa delle armi della contesa, sia sul piano di quella autoritrattistica in progress che contraddistinse la carriera dei tre autori, sia sulle tecniche di strutturazione formale delle loro pièces. Reagenti imprescindibili della ricerca perché elementi propri del teatro del tempo, nonché, di conseguenza, legami indissolubili fra tre uomini apparentemente così diversi, i rapporti di questi scrittori per il teatro a pagamento, da un lato, con i loro interpreti, ovvero i comici dai quali Goldoni e Chiari erano stipendiati e a cui invece Gozzi donava le proprie opere, e, dallaltro, con il loro pubblico, che era al tempo stesso un pubblico di spettatori e di lettori. Ho cercato in ogni caso di guardare dietro le quinte delle stampe, ponendo i libri a contrasto tra loro, come li vollero esplicitamente o implicitamente gli autori, e di entrare in quellofficina testuale che si lascia intravedere quando al di sotto della pagina stampata affiorano le carte di scena, i relitti di una laboriosa stagione di vita teatrale nata a tavolino e cresciuta sul palcoscenico. Lindagine mi ha condotto così anche in direzione sia delle forme di scrittura teatrale tardo seicentesche e primo settecentesche, sia degli esempi di raccolta teatrale di moderna tradizione francese, ben presenti entro lorizzonte culturale dei tre scrittori.
Negli anni successivi ho fatto ritorno alle problematiche rinascimentali, per altro mai tralasciate, come documenta il lungo saggio del 2000, Aristotele e la moscacieca: sul rapporto Ingegneri-Guarini, che prosegue le indagini sulla pastorale del Cinquecento avviate con lo studio tassiano del 1995. In contemporanea è maturato il volume del 2002 (La miniera accademica. Pedagogia, editoria, palcoscenico nella Siena del Cinquecento) che si colloca allinterno del lungo lavoro di scavo sulla Siena del Cinquecento. La ricerca in questo caso verte su alcuni dei nodi della cultura locale: ripensa il gioco da veglia in una particolare accezione pedagogica, legata al traumatico passaggio dello stato da repubblica a porzione dei domini medicei; fa il punto sulla questione della firma collettiva dei membri dei sodalizi con specifico riferimento allattività comica; traguarda il palcoscenico accademico dalla prospettiva della nascente coabitazione con lo spettacolo professionistico. Limpostazione è di carattere metodologico e punta soprattutto sulla nozione di autorialità diffusa e transitiva che qualifica nel Cinquecento luniverso delle accademie e che simpone a Siena con particolare forza: si discute la natura dellautorialità stessa del testo teatrale accademico in relazione alla prassi consolidata di comporre a più mani le opere destinate a circolare sotto il nome dellAccademia, o anche sotto quello di uno specifico membro del gruppo. Linteresse risiede nel problema di metodo che si pone e non nellaccertamento delle responsabilità dirette dei singoli intellettuali nei vari settori presi in esame, come invece da più parti è stato fatto. Importa ripulire la storia dalle incrostazioni aprioristiche, e riflettere sui modi e le forme utilizzate dalle accademie senesi per perpetuare, ostendere e mettere in discussione se stesse nel confronto con la concorrenza, fosse essa politica, letteraria o attoriale. In questa direzione ha dato frutti precisi anche il saggio del 2003 in merito alla produzione teatrale di Lionardo Salviati, inquadrata nel dibattito in corso a Firenze nella seconda metà del secolo sulla nozione di spettacolo di corte, dibattito al quale lAccademia Fiorentina, di cui il Salviati era membro, fornì un decisivo contributo.
Muovendo ancora dagli ambienti delle corti e delle accademie, e portando a compimento le indagini avviate in campo tassiano, lintento precipuo del volume del 2004 (Ben mille pastorali. Litinerario dellIngegneri da Tasso a Guarini e oltre) è invece quello di fornire una stratigrafia della pastorale tardo cinquecentesca e primo seicentesca, indagata nelle sue strutture teoriche, drammaturgiche e sceniche. Su questo sincentrano i tre capitoli iniziali, privilegiando ciascuno uno dei tre aspetti, mentre lultimo profila gli sviluppi più tardi della favola silvestre. Un filo era necessario per tessere insieme i tre elementi indicati, nel rispetto della loro congenita compresenza nel corpo di ogni testo drammatico, e un filo, propriamente dArianna, era necessario per muoversi nel labirinto delle ben mille pastorali che affollavano lorizzonte teatrale di quegli anni, un orizzonte ignaro della futura proclamazione dello stilizzatissimo canone di Aminta, Pastor fido e Filli di Sciro che la storia lascerà depositare sulle pagine di tanti trattati letterari e nellimmaginario pastorale vigente. Il filo è stato individuato nelle indicazioni di Angelo Ingegneri nel suo Discorso della poesia rappresentativa (1598) in merito a ciò che è da lui stesso definito, con innovazione terminologica, terza spezie di drama. Le tesi dellIngegneri, che proclama lAminta tassiana capostipite della pastorale e ne fa discendere un cospicuo nucleo di pièces esemplari, è in rotta di collisione con la nozione di terzo genere che Battista Guarini elabora in contemporanea, riconoscendo invece il diritto di primogenitura al Sacrificio di Agostino Beccari. Fra questi due poli si articola un lungo dibattito attraverso la riflessione delle accademie e degli Studi, da un lato, e la pratica quotidiana dello scrivere e rappresentare pastorali, dallaltro, che andava contraddicendo sul palcoscenico ciò che si cercava di fissare nel libro, per cui il nome stesso della favola da agire sulla terza scena vitruviana si mostrava suscettibile delle più varie interpretazioni. Al centro del problema, dunque, la necessità di aristotelizzare il magma, non solo dal punto di vista, prevedibile, della normativa poetica, ma, ed è riconosciuto merito dellIngegneri che andrà esteso a Guarini, principalmente da quello della rappresentazione, dellopsis, in nome della quale la poesia deve di necessità farsi scena e la scena poesia, pena la rovina del tutto.
Al momento attuale le mie ricerche proseguono nellambito della drammaturgia cinquecentesca, come attestano le relazioni presentate agli ultimi Convegni sul Guarini, sul Giraldi sui pregiudizi letterari: Sassuolo 1587: viene Imeneo, Il teatro secondo le correnti occasioni, Stranieri in Arcadia. Soprattutto è giunto a compimento nel 2008 il volume Su le carte e fra le scene. Teatro in forma di libro nel Cinquecento italiano, che non riunisce saggi già editi, ma che, al contrario, è del tutto nuovo, pur avendo dietro le spalle oltre un decennio di ricerche. Lo studio si propone di traguardare da una specola diversa rispetto a quella consueta la tradizione dei testi teatrali cinquecenteschi. È leditoria dellepoca a costituire losservatorio privilegiato di questa indagine, che istituisce confronti metodologici con le tendenze emerse in anni recenti in campo italiano ed europeo sul rapporto fra le opere drammatiche e il torchio. Si cerca così di sanare uninspiegabile assenza, o quanto meno una limitatissima presenza del libro rinascimentale italiano di natura teatrale negli studi di riferimento, in genere più attenti a periodi storici posteriori e a paesi diversi dal nostro. Lanalisi segue un percorso solo in parte orizzontale, dato che non si perseguono intenti rigidamente storici, ed è volta piuttosto a tagliare trasversalmente le questioni, dando largo spazio ai complessi paratestuali, verbali e iconografici, che corredano le stampe. Sono affrontati così in sequenza problemi quali il transito delloralità verso il libro e il primo consolidarsi di una drammaturgia consapevolmente affidata al torchio; le molteplici forme di codificazione letteraria ed editoriale del Cinquecento maturo, legate allaffermarsi della moderna teoria poetica aristotelica; lingresso degli attori professionisti organizzati in compagnie (che verranno poi definiti Comici dellArte) nel mondo della stampa, con la loro rapida appropriazione dei meccanismi vigenti ormai collaudati; il legame interpretativo, presente fin dagli incunaboli, fra il testo drammatico e il suo corredo iconografico. Nel corso delle pagine alcune esperienze particolari ed alcuni fenomeni sono sottoposti ad una sorta di fuoco incrociato, ritornando più volte sotto prospettive multiple: si è voluto in tal modo cercare di tessere una sorta di ragnatela, tale da connettere ambiti di consueto ritenuti separati, sperando nel contempo di riuscire anche a sbandire qualche pertinace luogo comune sul nesso carte-scene.
Concludendo con le ricerche in fase di elaborazione, in questi ultimi mesi sto completando un ampio lavoro in due volumi sull'illustrazione editoriale dei drammi pastorali in Italia e in Europa dal 1583, anno della prima edizione illustrata dellAminta del Tasso(Venezia, Aldo Manuzio il giovane), al 1678, anno della prima edizione congiunta, ad Amsterdam, presso Elsevier, delle già ricordate pastorali 'maggiori' illustrate (Aminta, Pastor fido, Filli di Sciro), coronamento del percorso di formazione del canone drammatico pastorale italiano, ormai riconosciuto come un classico sul piano europeo.
Legenda